Riflessioni post Seminario con Miguel Benasayag: “Clinica della post-modernità”

La post-modernità è la sfida tra funzionare o esistere.

Possibile che derivi:
-da una perdita di fiducia nella razionalità, per via di tutte le atrocità anche da parte dei regimi totalitari che si sono susseguite negli anni e che ne sono responsabili;
-dalla convinzione di poter far affidamento sulla razionalità assoluta che ci permette di non intrappolarci nei corpi, quindi anche nei conflitti;

Delega massiva della razionalità verso la macchina.

Oggi stiamo vivendo una vera e propria colonizzazione delle macchine e i risvolti clinici sono che:
A) i pazienti vivono la loro vita in termini di funzionamento: tutto deve funzionare bene.
B) i pazienti sono entrati piano piano nel non-senso degli algoritmi delle macchine che valutano.
C) C’è il desiderio di essere trasparenti (social, blog, mass-media).
D) Viene insegnata la pedagogia delle competenze: vengono insegnate solo le competenze che
funzionano; e questo intrappola il soggetto.
E) Si diffonde la cultura dell’informazione a discapito di una cultura della conoscenza.

La conoscenza e l’informazione come paradosso della post-modernità

Vedere significa esser modificati, la conoscenza è sempre un movimento corporale, non un’attività passiva. Contrariamente dell’informazione ed è per questo che si entra nel paradosso della post-modernità: più siamo informati, più siamo bloccati ad agire. Tutto è quantitativo, ma tutto l’agire oggi è bloccato (se pensiamo alla cultura politica sempre più bloccata soprattutto fra le nove generazioni).
È vero che oggi la scienza permette l’incontro fra lo straordinario e l’ordinario ma è sempre il soggetto con la sua narrazione a rendere l’ordinario straordinario e questo permette di agire. Oggi però la narrazione ha lasciato posto alla connessione. La post-modernità milita contro l’agire perché oggi il soggetto deve funzionare attraverso i corpi che da un lato permettono il passaggio fra straordinario e ordinario, ma che d’altro canto sono bloccati dall’impossibilità di agire. Quindi noi clinici siamo impegnati a non identificarci con il nostro ruolo, e ad aiutare i pazienti a non identificarsi con il proprio ruolo.

L’individualismo come una nuova fragilità

L’individualismo tipico di questa epoca svuota, producendo un’esperienza di solitudine senza sé. La sofferenza non è integrabile: “Io non sono io” ed il funzionamento tecnico non può colmare questa falla così come il desiderio non è una voglia. Da una parte si potenzia il funzionamento tecnico (terapie comportamentali) ma d’altra parte si confina la fragilità: si produce un’intolleranza alla fragilità e non si educa alla socializzazione della fragilità.

Come comportarci allora?

Bisogna recuperare il senso: il diagnosta deve recuperare la sfida di incorporare il non sapere che è l’asse centrale di quello che un corpo può. Sperimentare non vuol dire essere schiacciati e non è un mandato: l’essere umano non deve essere utile.
• Non educhiamo bambini performanti;
• Sperimentiamo la nostra condizione;
• Ricerchiamo pratiche concrete per vedere ciò che accade;
• Proviamo a disfunzionare un po’.
Se non coincidiamo, abbiamo la possibilità di amarci!
Il non sapere deve essere legittimato, non intrappolato come difetto, e deve esser posto al centro della
nostra etica.